Speciale TATTICA e TECNICA
    TATTICA
  1. 140 ANNI DI BATTAGLIE
  2. IL METODO - prima parte
  3. IL METODO - seconda parte
  4. IL SISTEMA
  5. IL CATENACCIO
  6. LA ZONA E IL CALCIO TOTALE
  7. IL VERONA DI BAGNOLI
  8. LA ZONA MISTA: IL 4-4-2 e IL 4-3-3
  9. LA ZONA MISTA: IL 3-5-2 e IL 4-3-2-1
  10. IL CALCIO OGGI


  11. TECNICA
  12. LA SEDUTA DI ALLENAMENTO - prima parte
  13. LA SEDUTA DI ALLENAMENTO - seconda parte
  14. COME SI ALLENANO I RAGAZZI
  15. COME SI CALCIA IN PORTA
  16. ALLENARE I PORTIERI
  17. LA FASE DIFENSIVA E IL PREPARTITA


  18. IL RUOLO DELL'ALLENATORE

IL METODO (1863-1941) - prima Parte

Non è mio obiettivo individuare quale sia stato il modulo di gioco più efficace o spettacolare nella storia del Calcio. Il migliore è sempre quello nel quale i giocatori riescono ad esprimere compiutamente il proprio talento attraverso i risultati. Semmai, è sicuramente un mio obiettivo riportare i contributi di ogni particolare modulo e quanto di esso rimane ancora oggi. La storia dei comportamenti umani, infatti, altro non è che l’evoluzione stratificata del passato intesa come sintesi e aggiornamento nel tempo. Per questo, anche il Calcio attuale deve parte di sé alle sperimentazioni iniziali e al loro processo di crescita: solo conoscendo le virtù e i limiti delle esperienze tattiche precedenti, riusciamo a coglierne concretamente l’eredità e il contributo attuale.

Il primo modo di disporsi in campo, ufficialmente riconosciuto e esportato in tutto il mondo, è il METODO e nasce in Gran Bretagna. I maestri inglesi lo elaborarono secondo la loro concezione del Calcio e lo lasciarono pressoché invariato per ben 70 anni, fino cioè allo scoppio della seconda Guerra Mondiale. Nel resto del mondo, gli adattamenti apportati sono stati piuttosto contenuti vista l’alta considerazione che è stata riservata al football praticato nel Regno Unito, in quanto il migliore – se non l’unico – possibile. Questa tattica è stata dunque il punto di partenza, il primo sistema razionale di stare in campo, l’unico in grado di ottimizzare i compiti dei giocatori imponendo un’idea di collettivo.

Solo negli anni 30, alcune scuole prestigiose come quella danubiana e italiana in Europa e quella uruguagia in Sudamerica, hanno adeguato il regime tattico delle loro squadre alla natura dei propri giocatori, senza cambiare molto dal punto di vista dello schieramento in campo e del approccio mentale. Anzi, se vogliamo, ne hanno perfezionato i contenuti e l’efficacia. Di fatto, il METODO ha prodotto una serie di intuizioni ancora oggi irrinunciabili e facilmente identificabili.

L’APPROCCIO SPONTANEO Il 5 marzo 1870, a Kennington Oval, due rappresentative britanniche, una inglese e l’altra scozzese si affrontarono per la prima sfida internazionale della storia del Calcio. L’incontro, per la cronaca, finì 1 a 1.Il successivo 19 novembre, ci fu la ripetizione a Londra e questa volta si aggiudicarono la gara i padroni di casa (1 a 0).Due anni dopo, il 30 novembre, Glasgow fu teatro della rivincita scozzese che si concluse però a reti inviolate. Nel frattempo, nel 1871, venne disputato il primo Torneo ufficiale tra club di entrambe le nazioni nel quale venne assegnata la prima Coppa: la finale di Londra premiò i Wandereres – vincitori per 1 a 0 - sui Royal Engineers davanti a ben 2.000 spettatori.

Il Calcio, partito dall’Inghilterra meridionale, si diffuse presto in tutta la Gran Bretagna e soprattutto nel nord industriale divenendo uno sport popolare. Nacquero i primi teams (Aston Villa, Sheffield Wednesday, e Manchester United) e nel 1892 viene introdotto il concetto di professionismo tra i giocatori.

Le cronache dell’epoca ci raccontano come si schieravano in campo le squadre: gli inglesi adottavano un incredibile 1-1-1-8 (figura 1), mentre gli scozzesi un più “prudente” 1-1-1-3-5 (figura 2).

Evoluzione 1-1-1-8 di ispirazione inglese ed Evoluzione 1-1-1-3-5 di ispirazione scozzese

In pratica, al fischio d’inizio si assisteva ad un assalto all’arma bianca che coinvolgeva quasi tutti i giocatori, teso a conquistare la propria metà campo e a schiacciare l’avversario in difesa. L’unica strategia possibile era quella della preponderanza numerica e fisica. Tanto, prima o poi, il pallone sarebbe finito in rete.

scontro frontale medioevale

A ben vedere, le prime sfide a pallone – soprattutto quelle giocate tra inglesi e scozzesi – dovevano rappresentare una sorta di replica o rivincita sportiva della famosa battaglia di Stirling del 1297, quando i clan scozzesi guidati da William Wallace piegarono incredibilmente il grande esercito di Edoardo I Plantageneto.

Ma questa, è solo la Preistoria del Calcio.

IL METODO BRITANNICO Il gioco delle prime squadre britanniche si fondava essenzialmente sul concetto di dribbling, ovvero sull’iniziativa individuale del singolo attaccante e sulla sua capacità di mantenere il possesso palla. Un criterio piuttosto elementare e inefficace, soggetto più al confronto fisico che a quello di squadra. Qui intervenne il contributo delle formazioni scozzesi che preferivano invece imporre un calcio basato sulla velocità e sulla precisione dei passaggi. Così facendo, stavano perfezionando una nuova sintassi calcistica tesa a migliorarne l’efficienza: l’orchestra si contrappone al solista. Ma per sviluppare questi meccanismi, occorreva arretrare alcuni giocatori impostando il gioco da dietro o al massimo dal centro.

Ecco quindi combinarsi le caratteristiche di efficacia e spettacolarità, di specializzazione e competenza che hanno reso famosi i giocatori britannici. Il susseguirsi di tornei e sfide, hanno raffinato non solo la tecnica individuale ma anche la disposizione in campo, e il risultato fu un gioco meno frenetico e improvvisato. La ricerca di equilibri in campo e le strategie di accerchiamento hanno fatto il resto: i reparti si sono accorciati e meglio distribuiti, nuove regole comportamentali - sempre più rigide – sono state imposte ai calciatori. O adottavi il METODO o subivi la supremazia tattica di chi lo praticava.

Circa lo schieramento adottato alla fine dell’800, abbiamo informazioni piuttosto precise.

  • Davanti al portiere, si sistemavano in linea verticale 2 difensori, giocatori piuttosto ruvidi e molto forti fisicamente, che avevano compiti diversi tra loro: uno aveva la mansione di entrare deciso per rompere il gioco avversario e l’altro quello di chiudere sull’attaccante di turno. Pur rimanendo piuttosto bloccati dietro, nelle migliori occasioni, riuscivano a formare la diagonale e il più tecnico dei due operava anche in appoggio alla manovra.
  • 20/30 metri più avanti si disponevano 3 mediani, di cui uno assumeva il ruolo di centrale e gli altri giostravano ai suoi lati con compiti prettamente difensivi. Il loro obiettivo era quello di fermare le ali avversarie e rilanciare l’azione di attacco.Il mediano centrale, invece, aveva il compito di coordinare la squadra sia in fase di copertura che di costruzione: era il giocatore più importante di tutta la squadra sul quale ci soffermeremo più in là.
  • Davanti a loro, con versioni più o meno diverse a seconda delle scuole di pensiero, si schieravano 5 attaccanti. In genere 2 di loro si allargavano sulle estremità del campo (le ali) mentre i rimanenti si muovevano con grande libertà.
Il Metodo classico

Come è facile intuire, il METODO classico discende dalla PIRAMIDE già evidenziata nella scorsa puntata. Anzi ne rappresenta una sorta di consolidamento. Questa disposizione viene detta dagli addetti ai lavori anche schema del “doppio W”, visto che gli estremi di queste 2 lettere corrispondono alla disposizione dei giocatori in campo.

Facciamo alcune considerazioni tattiche per sottolinearne le caratteristiche.

  • Innanzitutto colpisce l’enorme preponderanza numerica che viene data all’attacco, composto da ben 5 giocatori, rispetto alla difesa che dispone solo di 2 uomini più il portiere.
  • Non esiste un’organizzazione compiuta del reparto difensivo e la marcatura è a zona basata cioèsul presidio dello spazio di competenza. Questo dipendeva dal fatto che era più facile da imparare e che la disparità numerica non consentiva alternative valide.
  • L’unica arma veramente efficace per difendersi era l’utilizzo esasperato del fuorigioco (facilitato anche dalla marcatura a zona) che costringeva alla manovra offensiva avversaria di svilupparsi in una fascia di campo piuttosto ristretta. Quando però mancava l’abilità di adottare l’offside, era un disastro: i mediani, che avevano anche il compito di costruire, venivano tagliati fuori dalla superiorità numerica degli avversari e l’intera squadra soccombeva. Ecco perché le prime partite giocate tra formazioni organizzate e formazioni disposte casualmente si sono concluse con risultati impietosi.

Se si vuole, il METODO nella sua maturità, si poggia sul criterio evoluto di “attaccare ragionando”. La fase offensiva si sviluppava tramite meccanismi di aggiramento dell’avversario, utilizzando il gioco sulle corsie laterali e geometrie essenziali e verticali. Venne individuato in ogni squadra un leader che dettava i tempi (generalmente il mediano posto al centro o uno dei 5 attaccanti) e il possesso della palla si trasformava in una forma offensiva di accerchiamento e ricerca dei punti deboli dell’avversario.

Anche le tecniche difensive si svilupparono elaborando meccanismi in grado di opporsi in maniera sempre più efficace: l’applicazione esasperata del fuorigioco rappresentò il loro punto di forza. Tanto che, nel 1925, fu necessario ripensare la regola introducendo il fuorigiocoa due (un giocatore più il portiere) anziché a 3. Il gioco stava perdendo le sue caratteristiche originali di velocità e di verticalizzazione, con gli attaccanti che procedevano solo attraverso ripetuti passaggi laterali per non cadere nelle trappole difensive bene organizzate. La perdita di spettacolarità, causato da un tatticismo esasperato, costrinse l’abolizione della vecchia regola modificando di fatto la maniera di proteggere l’area di rigore e la disposizione in campo dei giocatori.

LA DIFFUSIONE E LA NASCITA DI ALTRE SCUOLE In quasi tutti i Paesi Europei - Italia compresa - si disputavano Tornei e/o Coppe sin dall’inizio del 1900. Ex giocatori inglesi professionisti, sparsi in tutto il vecchio Continente, avevano costituito nuovi club insegnando l’arte di giocare a pallone. Il 1 ottobre 1902, a Vienna, si giocò il primo confronto continentale tra selezioni di diversi Paesi - quelle dell’Austria e dell’Ungheria - risolto con un perentorio 5 a 0 a favore dei padroni di casa. Gli Inglesi erano dunque 30 anni avanti al resto del mondo!

Austriaci e ungheresi furono comunque tra i primi a completare l’opera di organizzazione interna e riuscirono ad elaborare una grande scuola calcistica, detta appunto “danubiana”, con la quale si imposero per anni in tutta l’Europa. Il loro particolare modo di stare in campo, pur nel rispetto della tradizione inglese, non fu trasferito direttamente dai britannici in quanto all’epoca, il rigore politico dell’impero austro-ungarico non vedeva di buon occhio influenze da parte dei cittadini d’Oltre Manica. Furono i tedeschi e gli svizzeri a farlo, dopo averlo assorbito a loro volta. Ciò agevolò uno stile e una interpretazione di gioco più personalizzato e meno riconducibile a una pedissequa riproposizione degli schemi britannici.

La scuola danubiana basava la propria attenzione sulla supremazia tecnica del palleggio, con una chiara predisposizione verso il gioco offensivo. Anche qui venne esaltato il ruolo del centromediano, vero direttore d’orchestra e perno dell’elaborazione del gioco. L’influenza ungherese fu decisiva anche nell’evoluzione del Calcio in Italia. Durante gli anni venti, furono i tecnici e i giocatori danubiani a dare un’impronta definitiva ai club protagonisti del nostro campionato: basti citare Felsner (Bologna), Karoly e Hirzer (Juventus), Cargnelli (Torino), Werz (Inter). Posso tranquillamente concludere che, se la fondazione di molti club italiani ha un’origine inglese, la loro evoluzione tattica è stata ungherese o austriaca.

L’espressione più elevata dal punto di vista tecnico del calcio danubiano è stato il celeberrimo Wunderteam di Hugo Meisl, la nazionale austriaca imbottita di giocatori del Rapid Vienna che si impose in Europa tra il 1925 e il 1935. Fecero soffrire perfino la grande Inghilterra in un mitico incontro disputato a Stamford Bridge nel 1932, soccombendo tra gli applausi per 4 a 3. Questo era il dettame di Meisl: “Tutti gli undici uomini di una squadra devono stare sempre in movimento, per non permettere all’avversario di indovinare le loro intenzioni. Tutti i giocatori, tranne il portiere, devono saper costruire. Sempre in azione e continuamente diretti verso la porta avversaria! Mai passare davanti a un compagno di gioco per non togliergli lo spazio. Questo è il mio sistema: nessun sistema. Intelligenza, velocità e sorpresa sono gli elementi del successo…. Noi continentali abbiamo estro e stile e pertanto il Metodo è laHugo Meisl e il Wunderteam forma di gioco di gran lunga più conveniente e più efficace.” Quale modernità, e siamo solo nel 1935!

Solo l’Italia di Pozzo e la morte prematura per attacco cardiaco del suo mentore, avvenuta nel 1937, posero fine alle prodezze dei bianchi.

Il METODO più famoso adottato nel nostro Paese, fu quello proposto dall’Ambrosiana Inter durante il primo campionato a girone unico del 1929/30. Si trattava di un gioco assai manovrato, imperniato su stretti passaggi tra mediocentro, laterali e interni ma non disdegnava l’applicazione di variazioni come il lancio lungo verso gli attaccanti, sia sulla fascia che in profondità. Ideatore di questa formazione era Arpad Werz, che avanzò il geniale Bernardini dietro le punte per sfruttarne a pieno il talento. Ma dopo poche partite, “Fuffo” chiese di tornare a fare il centromediano metodista, ruolo nel quale si sentiva più versato. E così il mister fu costretto a lanciare in prima squadra un certo … Bepin Meazza.

Il Metodo all'italiana

Origine analoga a quello europeo, il calcio sudamericano crebbe prima di tutto in Argentina, poi in Uruguay e Brasile sempre per merito di ex giocatori britannici. L’Uruguay fu dominatore assoluto del calcio mondiale tra il 1924 e il 1930 vincendo 2 competizioni olimpiche e il primo Campionato del Mondo disputato a Montevideo grazie al talento di Josè Leandro Andrade, giocatore di colore di una squadra che faceva della concretezza e del contropiede le sue armi migliori. Questi calciatori erano combattenti nati, dotati di grande carattere, insuperabili nell’agonismo e in grado di domare anche formazioni più dotate tecnicamente come quella italiana, argentina e austriaca.

La diffusione internazionale del Calcio è stata facilitata dall’inserimento di questo sport nei Tornei olimpici di Anversa (1920), Parigi (1924) e Amsterdam (1928) e dalla nascita della Coppa Rimet. In questo modo, le varie scuole avevano l’occasione di confrontarsi tra di loro, anche se non potevano misurarsi con i maestri inglesi, chiusi nel loro splendido isolamento.

Non ci rimane che raccontare gli splendori della Nazionale di Pozzo, le vicissitudini del nostro Hellas Verona e i ruoli più importanti del METODO. Per tutto questo, però, vi aspetto la settimana prossima.

Massimo

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