Speciale TATTICA e TECNICA
    TATTICA
  1. 140 ANNI DI BATTAGLIE
  2. IL METODO - prima parte
  3. IL METODO - seconda parte
  4. IL SISTEMA
  5. IL CATENACCIO
  6. LA ZONA E IL CALCIO TOTALE
  7. IL VERONA DI BAGNOLI
  8. LA ZONA MISTA: IL 4-4-2 e IL 4-3-3
  9. LA ZONA MISTA: IL 3-5-2 e IL 4-3-2-1
  10. IL CALCIO OGGI


  11. TECNICA
  12. LA SEDUTA DI ALLENAMENTO - prima parte
  13. LA SEDUTA DI ALLENAMENTO - seconda parte
  14. COME SI ALLENANO I RAGAZZI
  15. COME SI CALCIA IN PORTA
  16. ALLENARE I PORTIERI
  17. LA FASE DIFENSIVA E IL PREPARTITA


  18. IL RUOLO DELL'ALLENATORE

IL METODO (1863-1941) seconda Parte

Il 10 giugno 1934, a Roma, battendo la Cecoslovacchia per 2 a 1, l’Italia si laurea per la prima volta Campione del Mondo. 4 anni e 9 giorni dopo, a Parigi, il 19 giugno 1938, umiliando l’Ungheria 4 a 2 crea il mito. A metà strada, ci sono le Olimpiadi di Berlino e naturalmente vince anche lì. Non vuole essere la celebrazione dei successi di Vittorio Pozzo e dei suoi giocatori, ma negli anni che sto raccontando gli azzurri rappresentano quanto di meglio ci possa essere al mondo. Inghilterra a parte.

Vittorio Pozzo e la Nazionale Campione del Mondo

L’ETA’ DELL’ORO DEL CALCIO AZZURRO Tutte le nazionali affrontate dall’Italia praticavano il METODO. Si distingueva leggermente l’applicazione dei Paesi Scandinavi, che riproponevano il modulo classico di origine britannica e quella dei Paesi Europei e Sudamericani che lo avevano adattato alle esigenze dei loro giocatori, meno forti fisicamente ma più veloci e dotati tecnicamente: i 5 attaccanti venivano separati in 2 parti, con l’introduzione di 2 mezzali arretrate a sostegno del centrocampo, mentre davanti si disponevano con 2 ali esterne e 1 centravanti. Nelle competizioni mondiali veniva adoperato un pallone di marca inglese più grosso di quello abituale e anche piuttosto pesante e meno regolare nella qualità di cuoio. Per giocatori in possesso di buona tecnica come quelli italiani, questa era una difficoltà ulteriore.

La scelta tattica vincente del CT azzurro è stata quella di tenere le 2 mezzale Ferrari (“settepolmoni”) e Meazza più arretrate rispetto alla norma. L’obiettivo era quello di compattare ulteriormente i vari reparti dando manforte alla difesa, senza creare però troppo disagio al fronte offensivo. Questo poteva accadere perché l’esperienza internazionale – Ferrari e Meazza furono gli unici 2 giocatori titolari a prendere parte ad entrambe le manifestazioni - e l’intelligenza tattica consentiva loro di occupare in campo la posizione che serviva alla squadra. Tale concetto fu esasperato nel 1938, anche a seguito delle caratteristiche più difensive dei mediani e così la nazionale finì per sfruttare in maniera molto più efficace il contropiede.

A partire dall’esperienza uruguagia di una decina di anni prima, per arrivare a quella adottata dagli uomini di Pozzo il METODO, nato come espressione di un calcio ragionato ma sempre molto offensivo, stava elaborando soluzioni alternative quali il possesso di palla e il gioco di rimessa.

Si ritiene giustamente che la Selezione del 1934 fosse dotata di un maggiore tasso tecnico e composta da giocatori di grande personalità. A conferma di ciò, in Francia gli azzurri hanno dovuto superare avversari sicuramente più agevoli (la ruvida Norvegia, la Francia padrone di casa e il modesto Brasile) di 4 anni prima (gli Stati Uniti, la temibile Spagna e soprattutto il Wunderteam austriaco). La stessa finale, conquistata solo al 95’ minuto con un gol di Schiavo, fu molto più combattuta.

Provando a confrontare i componenti delle 2 formazioni nei loro rispettivi ruoli, abbiamo 2 portieri di pari valore (Combi e il veronese Olivieri); la difesa del 1934 era senz’altro superiore grazie agli impenetrabili Monzeglio e Allemandi sotto la guida del fortissimo centromediano Monti; in mediana, Ferraris IV e Bertolini erano più potenti di Serrantoni e Locatelli; mentre davanti i due attacchi si compensavano tra loro, perché Orsi era più tecnico di Colaussi ma Piola sovrastava il pur decisivo Schiavo. Fatto sta che vincere due competizioni consecutive, con 9/11 diversi, è stata una grossa dimostrazione di valore assoluto, espressione della crescita definitiva del calcio nazionale. Al di là del giudizio sui singoli.

Due parole infine sul mister. Pozzo ha rappresentato il punto di incontro tra il METODO tradizionale, il cui massimo esponente era l’austriaco Meisl e l’idea di cambiamento che stava emergendo in quegli anni in Inghilterra con l’introduzione del SISTEMA. Del primo conservava l’impianto di gioco e l’organizzazione tattica; del secondo la mentalità. Di fatto, lo stesso Pozzo fu tra i primi ad introdurre in Italia, alcuni anni dopo, il SISTEMA ottenendo però scarsi risultati. La sua maggiore capacità è stata quella di ottenere sempre il massimo dai suoi atleti privilegiando il cuore, l’intelligenza e il coraggio rispetto alla tecnica pura e al senso estetico. Per lui, i giocatori “non erano ballerine, ma soldati”. Perfettamente allineato con la mentalità di un’epoca piuttosto coinvolta.

L’HELLAS VERONA E IL METODO Come sappiamo, l’Hellas nasce nel 1903, ma gli occorreranno almeno 40 anni per intraprendere risultati duraturi nel tempo. In pratica, dobbiamo attendere la gestione di Giovanni Chiampan (1945/46) e di Giorgio Mondadori (1953/54). Prima di questo periodo, riconosciamo tre fasi distinte e separate che hanno caratterizzato il suo processo evolutivo, alla fine delle quali i gialloblu sono riusciti a trovare la propria dimensione nazionale. Anzi, ad essere corretti – come ci ha segnalato Gianluca Tavellin, giornalista sportivo e figlio dell’attaccante veronese degli anni 50 – i “blu-gialli ”, visto la preponderanza cromatica del primo colore nelle casacche scaligere.

La prima fase rappresenta gli esordi agonistici dell’Hellas e prende il via nel 1911, anno in cui si iscrive al Campionato Nazionale di 1° categoria confrontandosi con realtà locali dell’ambito veneto-emiliano. Siamo ancora in una dimensione limitata e la squadra non ha assunto nemmeno la leadership cittadina.

Con l’avvento alla presidenza del conte Carlo Fratta Pasini (1920/21) prima e Bonomi Da Monte poi, le ambizioni crescono notevolmente ed entriamo in una fase di discreto rigoglìo: sono gli anni in cui giocano buoni attaccanti come Levratto e Chiecchi III e si svolgono con successo le prime sfide di carattere nazionale. Nel 1926, i blu-gialli riescono persino a battere i futuri campioni d’Italia della Juventus con un gol del brasiliano Porta.

Felice Levratto Giovanni Chiecchi (III)

I mezzi economici però, erano piuttosto limitati e la crisi economica del 1927 introdusse l’Hellas Verona in un lungo periodo buio. L’anno successivo, infatti, i dirigenti furono costretti a cedere i migliori giocatori e l’ennesima ristrutturazione del Campionato - che riuniva la serie A in un unico girone - li costrinse a iscriversi al torneo cadetto: non era bastato infatti l’11° posto in classifica per rimanere tra i grandi. Inizia così il calvario Purgatorio della B. Tiberghien prima e Dall’Ora poi, tenteranno invano di sollevare le sorti della squadra, ma nemmeno la presenza di giocatori importanti come Olivieri, Micheloni, Busin e Remondini è stata sufficiente. L’amara retrocessione in serie C, subita nella stagione 1940/41, ha posto fine a tutte le speranze. E peggio della C, c’era solo la guerra incombente.

L’Hellas, in questi anni, è sempre stato fedele al METODO. Un po’ per mancanza di alternative, un po’ per scelta propria. Certo, la serie B non offriva molta fantasia e nemmeno poteva essere ispiratrice di esperimenti tattici. I pochi mezzi a disposizione e la penuria di talento tra i giocatori, costringeva i tecnici blu-giallo ad andare sul sicuro.

C’è stato anche un altro elemento da tener presente: i suoi allenatori. Era politica dei dirigenti dell’epoca assegnare la panchina a ex giocatori perché conoscevano bene l’ambiente ed avevano poche pretese economiche. Tra l’altro, non essendo ancora state formalizzate scuole di allenatori, tutto quello che era stato imparato proveniva dall’esperienza diretta acquisita sui campi di gioco. Ad esempio, Chiecchi I guidò la squadra dal 1936/37 fino al 1940/41; Angelo Piccioli sedette in panchina a più riprese tra il 1949 e il 1958. In mezzo a loro, ci sono stati altri tecnici fedeli al METODO come il teorico l’ungherese Venicech, molto bravo a insegnare calcio e grande sostenitore della scuola danubiana, Biagini, Ferrero e Allasio. Si raccontano cose incredibili intorno alle sedute di allenamento di Venicech, era una specie di professore universitario per l’epoca. Peccato che… predicasse nel deserto.

Non deve sorprendere il fatto che parliamo di METODO anche dopo la seconda Guerra Mondiale. Si pensi che fino agli anni 70 (compresi), in piena epoca CATENACCIO e agli albori della ZONA, in Italia ci sono stati tecnici - soprattutto nelle categorie inferiori - che riproponevano questo modulo pur in versione aggiornata. Cito alcuni esempi: il Novara di Parola, il Catanzaro e il Varese di Seghedoni, il Lecco di Longoni, la Reggiana di Galbiati, il Treviso di Massei. Anche la scelta della numerazione adottata dai loro giocatori lo evidenziava (1 era il portiere; 2 e 3 i marcatori; 5 il centromediano o libero, comunque il regista arretrato della squadra; 4 e 6 i mediani esterni, 8 e 10 le mezzali; 7 e 11 le ali; 9 il centravanti). Il METODO manteneva la sua vitalità soprattutto per merito della sua mentalità offensiva: non era solo volontà nostalgica di un calcio arioso e di spinta, era l’unica alternativa disponibile a contrastare il calcio utilitaristico e difensivista che si praticava in quel periodo. Con scarsi risultati però.

Il Verona 1957/58 matricola di Serie A

A Piccioli riconosciamo la vittoria del Campionato 1956/57 e la conseguente promozione in serie A, per merito di un gioco molto offensivo e privo di tatticismi. Questa la formazione base: Ghizzardi; Brasiliani, Begalli; Frasi, Cardano, Stefanini I; Galassini, Ghiandi, Maccaccaro, Bertucco, Bassetti.

La perseveranza verso schemi piuttosto larghi fu però fatale ai blu-gialli l’anno successivo quando furono chiamati a difendere la loro permanenza nella massima serie. Oltre alla scarsa esperienza e al limitato spessore tecnico (solo il brasiliano Del Vecchio valeva la categoria), concedevano agli avversari poca avvedutezza tattica. Forse i tempi stavano cambiando e un po’ di sano CATENACCIO li avrebbe potuti aiutare. Di fatto, la prima stagione di A coincise con l’immediata retrocessione tra i cadetti: il METODO e la filosofia calcistica di Piccioli non potevano certo bastare di fronte a giocatori di maggiore qualità.

Eppure ci piace ricordare questo maestro non solo per la famosa cavalcata di cui sopra, ma anche per la celebre sconfitta (3 a 0, con doppietta di Dini e rete di Pivatelli) che inflisse nel 1952 alla Salernitana di Gipo Viani, formazione fino a quel momento imbattuta e in testa alla classifica, che rappresentava un esempio molto efficace di CATENACCIO. In quella occasione, il gioco spregiudicato dei veronesi riuscì a smontare ogni tatticismo avversario. Con l’aiuto del cuore e l’entusiasmo che sapeva infondere ai suoi ragazzi Piccioli, si è ritagliato una parte importante nella storia della nostra squadra.

Gino Pivatelli

I RUOLI CHIAVE DEL METODO Si ritiene che il primo approccio a un problema sia anche il migliore. Forse a causa dell’intuito e della predisposizione naturale ad affrontarlo. Sarà, ma i principali ruoli introdotti dal Metodo, sia nell’accezione classica britannica che nell’ evoluzione danubiana, vengono ancora adesso considerati come le soluzioni più appropriate.

La Juventus campione d’Italia del 1925-26 (quella che battemmo 1 a 0, per intenderci…) è considerata dagli studiosi un ottimo esempio, tutta imperniata intorno al suo centromediano metodista (o mediocentro) Josef Viola, giocatore ungherese in possesso di buona tecnica ed eccellente senso della posizione. Oltre a lui, altri celebri esempi famosi in questo ruolo sono stati i vari Bernardini, Janni, Pitto, Ferrarsi IV. Passa il tempo ma l’importanza strategica di un uomo d’ordine, posizionato tra difesa e attacco, è rimasta invariata. Il successo di molte squadre, al di là dello specifico schieramento tattico, non può prescindere da ciò. Ecco perché anche oggi ricordiamo l’importanza che ha avuto Falcao nella conquista dello scudetto romanista del 1982/83 e il francese Viera, pupillo di Capello, chiamato a organizzare il gioco della attuale Juventus. Il mediano metodista potrà essere chiamato oggi in un altro modo, ma ha la medesima funzione di 80 anni fa: è l’uomo che detta i tempi, che muove gli schemi, che prepara la manovra. Generalmente forte fisicamente, molto dotato tecnicamente è in possesso di personalità sia in campo che fuori.

Hans Liniger

Il primo centromediano in grado di far girare l’Hellas fu Liniger, non a caso anche il primo straniero. Durante la stagione 1912/13, visto il buon andamento in Campionato, i dirigenti veronesi decisero di rinforzare ulteriormente la squadra ingaggiando questo svizzero con passato da giocatore, arrivato alcuni mesi prima in Italia per imparare la nostra lingua e impiegato presso una ditta di trasporti. In Svizzera giocava da attaccante, ma era talmente superiore rispetto ai suoi nuovi compagni, che gli fu chiesto di arretrare a centrocampo a comandare il gioco. Non ci furono problemi e davanti a un piatto di trippa e a un bicchiere di rosso, fu firmato il contratto. Altri tempi, però!

Emiliano Mascetti

Se Liniger fu il primo, Mascetti è stato il migliore in assoluto: una bandiera per la storia del Verona (330 partite e 46 gol fatti). Liedholm ricordava che era talmente bravo che i compagni di squadra lo avevano soprannominato “Beckembauer”. Dotato di buona prestanza fisica, ottima visione di gioco, un destro importante, è stato per anni il leader indiscusso della squadra, oltre che il direttore sportivo all’epoca dello scudetto. Giocava in posizione centrale, davanti alla difesa, con la maglietta numero 8: più arretrato rispetto a Pozzan, Di Gennaro e Troglio; più dotato tecnicamente di Leo Colucci, Mazzola e Ficcadenti; più dinamico di Prytz e Guidetti. Un giocatore completo insomma: fulcro della manovra gialloblu per una dozzina di Campionati, è stato in 3 occasioni il miglior realizzatore della squadra (nel 1972/73 con 7 centri; nel 1975/76 ancora con 7 e infine nel 1977/78 con 9) e ha finito la carriera arretrato nel ruolo di libero. Chi ha avuto l’onore e la fortuna di vederlo giocare, non lo ha più dimenticato.

Un altro ruolo origine di evoluzione tattica è stato quello del centravanti. Nell’accezione classica britannica questo giocatore non esisteva. O meglio, si confondeva con uno dei 3 attaccanti centrali. Furono gli ungheresi a individuare il calciatore in possesso di particolari qualità che doveva differenziarsi dagli altri. All’inizio i magiari assegnavano al centravanti compiti di regista avanzato e di suggeritore per l’inserimento offensivo dei 2 attaccanti che giocavano ai suoi lati. Si direbbe una sorta di centravanti tattico che ricorda molto da vicino il movimento di Baggio o Totti. Grandi talenti ungheresi che si sono affermati in questo ruolo, sono stati Orth negli anni venti e Sarosi negli anni trenta.

In Italia, però, questa evoluzione non trovò molto seguito. Prima di tutto perché non è sempre stato agevole trovare un giocatore in possesso di queste caratteristiche tecniche; in secondo luogo perché si puntava a specializzare il centravanti come finalizzatore del gioco. Meazza, fu un raro esempio di attaccante stile danubiano, che arretrò di 20 metri col passare del tempo trasformandosi in mezzalaa vantaggio di attaccanti più potenti di lui sotto porta come Schiavio e Piola.

L’evoluzione di questi ruoli e la crescita di spessore dei loro protagonisti aumentò l’importanza del Calcio come sport di massa. Negli anni trenta, è secondo solo al ciclismo per diffusione. I confronti internazionali si fanno sempre più frequenti e quelli con le formazioni britanniche non sempre hanno un esito negativo; comincia a diffondersi anche presso di noi il professionismo e prolifica il trasferimento da un Paese all’altro di giocatori e allenatori. Questo fenomeno, sempre meglio perfezionato, comincia a trovare gli inglesi un po’ impreparati: sono ancora i più evoluti dal punto di vista tattico, ma cominciano a soffrire da quello tecnico. C’è bisogno di prendere nuove contromisure oppure di reinventare il gioco del Calcio. Ci riusciranno?

Massimo

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