Arriviamo
all'esperienza in panchina...
"Dopo
aver smesso con il Povegliano ho cominciato ad allenare i
giovanissimi al San Zeno del presidente Casale. Ufficialmente dovevo
fare solo l'allenatore dei ragazzi, ma poi qualche volta capitava
che mi chiamassero a giocare in Prima Squadra quando c'erano delle
assenze, così mi ritrovai ancora in campo da giocatore. Dopo San
Zeno, ho allenato anche l'Alba Primavera, prima di passare alle
giovanili del Verona. Due stagioni, con la stessa squadra di ragazzi:
nel 92-93 campionato Giovanissimi, l'anno successivo il campionato
Allievi."
Che
società hai ritrovato a Verona dopo tanti anni da quando eri
calciatore?
"Una
società sicuramente diversa, che non viveva più solo del carisma
del Presidente Garonzi, e nella quale si cercava di inserire una
nuova mentalità voluta dai Mazzi. Devo dire però che a livello di
giovanili ho visto anche qui le solite lacune, dovute alla difficoltà
di decidere quando vale la pena investire seriamente su un ragazzo di
talento."
Il
Verona si lasciava scappare i ragazzi?
"A
fine stagione il giudizio di allenatori e tecnici era decisivo per
confermare ragazzi su cui c'era necessità di investire dei soldi.
Se decidevi di trattenere un ragazzo occorreva pagare la società di
provenienza, e questo mandava nel "panico" diversi tecnici che,
piuttosto che sentirsi rinfacciare di aver fatto spendere soldi
inutilmente, preferivano non correre il rischio. Era un po' un
periodo di "caccia alle streghe": la proprietà non perdeva
occasione per dare addosso a chi aveva voluto investire su ragazzi
che poi magari non rispondevano alle aspettative. Ma così si
lasciavano per strada anche diversi ragazzi di prospettiva. Per
contro, capitava poi che si andassero a comprare rinforzi per la
Primavera da altre società, non di rado prendendo delle cantonate
clamorose."
Insomma,
lavorare con i giovani non è mai facile...
"Non
lo è, ci vuole perseveranza e capacità di seguirli e di formarli
senza pretendere che siano subito dei campioni. Bisogna spendere
energie e non solo quelle: ci vuole anche il coraggio di decidere,
quando serve, di spendere soldi."
E anche
avere una rete di rapporti con le società della Provincia, suppongo...
"C'è
un episodio che vale la pena di essere raccontato: quando ero ancora
al Verona nelle giovanili, si affacciava alla prima squadra Damiano
Tommasi. Bortolo Mutti lo fece esordire in serie B nel campionato
1993-94. Il ragazzo dimostrò subito di avere la stoffa e avrebbe
meritato di diventare titolare, ma fra Verona e San Zeno, la società
di provenienza, c'era un accordo secondo cui al San Zeno spettava
un bonus nel caso in cui Tommasi avesse giocato un tot di partite nel
suo primo campionato in Prima Squadra. Ci fu quindi l'input di
utilizzarlo "col contagocce". Ovviamente il presidente del San
Zeno, Casale, intuì il gioco al ribasso e non rimase molto contento.
Anche qui la capacità di una società professionistica deve essere
quella di individuare fra tante le società dilettantistiche che
possono costituire un serio serbatoio di utenza. Un conto è buttare
dei soldi una tantum per prendere un giovane già formato su cui
magari devono lucrare anche i procuratori; altro conto è valorizzare
e premiare società che poi reinvestono tali soldi nel vivaio, e
quindi possono darti altri ragazzi anche in futuro. Mi sembra un
concetto semplice, ma ti assicuro che non sempre le cose vanno così."
Come mai
hai smesso di allenare?
"Diventava
impossibile conciliare il lavoro con gli allenamenti di una squadra
di ragazzi. Erano anni in cui anche nel settore giovanile si
pretendeva un grande impegno e non bastavano più i 2-3 allenamenti
alla settimana."