Poi, dopo il ritiro dai campi, cominci ad allenare i ragazzi.
Nonostante ne abbia avuto l’opportunità, e mi siano stati offerti anche dei contratti molto vantaggiosi, non ho mai voluto allenare i portieri delle prime squadre. Molti dei miei ex compagni di squadra ai tempi della A hanno fatto una buona carriera da allenatore, basti pensare a Reja, ma anche Arcoleo che ogni tanto mi chiamava per cercare di convincermi ad allenare. Ho scelto di lavorare sempre e solo con i ragazzi perché mi piace l’idea di insegnare qualcosa a chi ha davvero bisogno di imparare. I ragazzi sono delle spugne e assorbono tutto quello che gli insegni con entusiasmo. Io insegno ai ragazzi la tecnica, il modo di coordinare il corpo, come devono posizionarsi e muoversi per andare a prendere il pallone, ma soprattutto cerco di tirarne fuori il meglio.
Che valori cerchi di dar loro?
Spiego a loro che l’obiettivo è giocare al massimo delle loro possibilità, non quello di farne portieri di serie A. La selezione la fa tutta una serie di fattori, fra cui le capacità, le doti fisiche, caratteriali e la forte personalità e la “fortuna” nel cogliere le occasioni giuste quando si presentano. Con i ragazzi cerco di condividere le “votazioni” che gli faccio periodicamente, analizzando con loro se fanno progressi durante gli allenamenti. I ragazzi sono sempre degli ottimi valutatori, si accorgono subito se giocano bene o male, se fanno progressi allenandosi, o se i compagni sono più bravi. Condividendo con loro le valutazioni si sentono più responsabilizzati e restano meno delusi se capiscono che non faranno strada nel calcio. Il problema, casomai, è farlo capire a certe famiglie che ripongono troppe aspettative nei ragazzi e sperano di avere in casa il campione del secolo. Io sono contento quando riesco ad insegnare a un ragazzo a giocare al meglio delle sue possibilità.

Capisci subito se uno può sfondare?
Allenando i ragazzi per anni ho sviluppato la capacità di intuire subito se uno ha la stoffa per fare il portiere. Io gli butto la palla o gli faccio un tiro nell’allenamento, ma non guardo il pallone: osservo come si muove il ragazzo, i suoi tempi di reazione. Quello che cerco di insegnare da un punto di vista tecnico è il coordinamento del corpo, la posizione che si deve assumere per andare a fare una parata. Il piede, ad esempio, deve essere rivolto nella direzione in cui ci si muove, per aiutare lo slancio muscolare. Da questo punto di vista, l’eccezione che conferma la regola fu proprio il grande Garella due volte campione d’Italia: aveva un’impostazione tutta sua, non coordinandosi per lo slancio verso il pallone, divaricava le gambe parando di piedi ed era portato più a “volare” non avendo il passo pronto per la spinta.
Hai alle spalle davvero diversi anni come allenatore dei ragazzi…
Quando ho chiuso con il calcio giocato, ho iniziato ad allenare i ragazzi: la mia prima esperienza è stata a Parma nel 1990. Sono rimasto a Parma per 6 anni, facendo anche l’osservatore e istruttore per le scuole calcio Parma, per l’Italia e l’estero. Poi ho fatto l’allenatore dei portieri del settore giovanile del Verona, per un anno, due anni al Mantova come responsabile settore giovanile e per vari anni al Brescia, fino al 2012, allenando i portieri. Poi ho smesso perché l’allenamento era diventato troppo impegnativo per il mio fisico: a 66 anni allenare 12-13 ragazzini contemporaneamente diventa stancante. Mediamente in una seduta di allenamento il preparatore di un portiere deve calciare in porta o fare cross per 70 volte; moltiplica per 13 ragazzini e puoi capire che alla sera rientravo a casa con la schiena a pezzi.