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HELLAS VERONA

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HELLAS VERONA

 
Hellas Verona english presentation

1. Il calcio è morto, W il calcio!

Il trentesimo campionato in massima serie del nostro Verona si è accomodato tra gli scaffali delle statistiche. Un lungo segmento di storia, quello del Verona in serie A, iniziato in pieno boom economico, corroborato da quell'aria di ottimismo e fiducia nel futuro così diversa da quella respirata in questi mesi oppressi dalla pandemia e dall'incertezza: dalla cornice di un "vecio Bentegodi" pullulante di passione alle tribune spettrali di un campionato a porte chiuse. Un segmento che si allungherà ancora, perché il decimo posto finale ci garantisce la massima serie anche per la prossima stagione.

È stato un campionato che, alla luce dei numeri, ha rispettato le attese di torneo tranquillo con salvezza raggiunta in largo anticipo e qualche gara da ricordare, come ciliegine su una di quelle torte ordinate al pasticcere di fiducia per fare bella figura senza esporsi troppo. Se spostiamo il focus su altri aspetti però, il dolce, dopo aver attizzato per bene le papille gustative, si rivela difficile da masticare e lascia un retrogusto sgradevole, quasi amaro. Sì, insomma, senza ricorrere ad ulteriori metafore, per come si era messa nel girone di andata, ci si aspettava un finale diverso, magari non l'Europa, ma quantomeno un paio di posizioni in più e soprattutto altre buone prestazioni in linea con quelle della prima metà del torneo. Invece la squadra ha avuto un tracollo di risultati. Niente di irreparabile per fortuna, non come in quella prima esperienza in serie A citata all'inizio: quel Verona ebbe un andamento simile, con un ottimo girone di andata e un deficit di risultati nel ritorno che lo condannarono alla retrocessione. Così come in tempi più recenti era capitato al Verona di Malesani nella stagione 2001-02, altra squadra passata dal respirare l'aria europea all'abisso della serie B. Stavolta i danni sono stati contenuti e hanno interessato solo il nostro umore, non l'esito del campionato.

Il Verona era chiamato a confermarsi dopo l'ottima stagione precedente, cosa per niente scontata nonostante la conferma di Juric in panchina, perché il mercato condotto da D'Amico, nel frattempo, aveva ridisegnato la squadra. E invece, fin dalle prime battute, è apparso chiaro che il cambio di tante pedine non aveva influito sulla qualità del gioco: difesa arcigna, pressing, ariose sovrapposizioni, inserimenti dalle retrovie e ritmo sempre molto alto. Un Verona che concede poco o niente agli avversari, fatica un po' a metterla dentro, soprattutto quando deve fare la partita (in casa siamo meno brillanti che in trasferta, sempre che di fronte a stadi completamente vuoti sussistano ancora effettive differenze tra il giocarsela al Bentegodi o su qualsiasi altro campo) ma dietro è una saracinesca e dove non arrivano i difensori ci pensa Silvestri a metterci la pezza. Anche la fortuna, sottoforma di una errata compilazione della distinta di gioco, ci mette del suo e il pur soddisfacente pareggio al debutto contro la Roma si trasforma in una vittoria a tavolino. Andiamo ad imporci a Bergamo e torniamo con 3 punti dall'Olimpico contro la Lazio, roba che non succedeva dai tempi dello scudetto. A San Siro, contro la capolista Milan, andiamo in doppio vantaggio e conteniamo il ritorno dei rossoneri nella ripresa uscendo imbattuti, così come poche settimane prima a Torino contro la Juve, con l'assolo di Favilli che ci fa assaporare per un po' il sapore di una vittoria storica. Il girone di andata si chiude con un successo netto sul Napoli e con 30 punti in saccoccia che valgono l'ottavo posto. Arrivano rinforzi, si pensa in grande, la qualificazione alla nuova Conference League dista solo 4 punti e l'entusiasmo è alle stelle.

Invece qualcosa si incrina e non è facile capire cosa. Crisi di risultati più che di gioco, ma senza dubbio il rendimento di qualche giocatore cala vistosamente e in generale la tensione in campo non è la stessa, spesso sembra che le avversarie abbiano più fame, più grinta. Peraltro, bastano i punti d'oro contro dirette concorrenti come Benevento e Cagliari per metterci al sicuro, tanto che nelle ultime nove gare arrivano solo 4 pareggi. Le voci di mercato, che ormai sono diventate un filone a sé stante del dibattito calcistico, certo non hanno aiutato, credo che il rendimento altalenante di qualcuno sia dipeso anche da questo, insieme ad un senso di appagamento che con una salvezza raggiunta in largo anticipo e una zona Europa praticamente inavvicinabile, ci può stare.

Ad aumentare i toni amari del finale arriva anche l'addio di Juric.

La scelta del ruvido allenatore croato era già percepibile da mesi, espressa non tanto dai contenuti delle tante esternazioni degli ultimi tempi, quanto dal tono utilizzato, caustico e palesemente insofferente di chi vive una situazione sgradita.

La tifoseria si trova ora divisa tra chi leggeva in tali esternazioni la testimonianza di un patto tradito da Setti e chi ne vede i tasselli di un penoso lavoro di costruzione di un alibi per scaricarsi la coscienza.

In tempi così divisivi, nei quali il manicheismo da curva (funzionale appunto in un ambito di tifo) sembra ormai essere definitivamente tracimato fuori dagli stadi per investire ogni aspetto della società, riservando agli smarriti cultori del confronto e dei mezzi toni una collocazione marginale, sacrificando ogni approfondimento alla logica della contrapposizione netta, sullo sfondo di una stagione controversa impera ora lo scontro tra i sostenitori di Setti e quelli di Juric. Manicheismo che forse appaga il bisogno di schierarsi, ma non aggiunge nulla alla realtà dei fatti.

Il primo fatto è che Juric al suo arrivo a Verona aveva fatto arricciare il naso a tanti tifosi, ma poi si è rivelato un ottimo tecnico, ha dato personalità ed efficacia alla squadra raggiungendo in due anni entrambi gli obiettivi prefissati, ovvero salvezze tranquille e valorizzazione del parco giocatori.

Il secondo fatto è la constatazione che la società che ha scommesso su di lui non è in grado, per ora, di spiccare il volo verso traguardi più ambiziosi (e probabilmente senza l'ingresso di soci facoltosi non lo sarà mai), traguardi che in qualche modo sembra siano stati invece promessi al buon Ivan, tanto da convincerlo a firmare un triennale.

Chissà come gliel'ha messa giù Cairo per convincerlo che le sue promesse sono più promettenti di quelle di Setti. Forse, banalmente, si tratta solo di soldi. Vedremo, in ogni caso non è più questione che ci riguarda, se non per quelle gare in cui incroceremo il toro.

A margine, ma nemmeno troppo, di questa trentesima stagione in serie A, vi sono almeno due altri argomenti su cui, a mio avviso, vale la pena soffermarsi. Uno riguarda direttamente il Verona, l'altro il contesto in cui la nostra squadra del cuore si trova ad operare, ovvero il mondo del calcio nel suo insieme.

Innanzitutto, quindi, applausi a scena aperta per il settore giovanile gialloblù, in particolare per la primavera (o under 19 che dir si voglia) che ha indossato i panni della schiacciasassi andando a stravincere il suo girone, guadagnandosi la promozione diretta nella massima serie del campionato. Chi ha seguito qualche gara dei nostri buteloti ha senza dubbio apprezzato la maturità e la determinazione con cui sono scesi in campo, regalando emozioni e mettendo in evidenza più di qualche giocatore con tutte le carte in regola per imporsi anche in prima squadra. Un settore giovanile che funziona è fondamentale per affrontare con fiducia il futuro, sia in termini di crescita del valore del parco giocatori, sia in termini di società di riferimento per l'intera provincia e anche oltre, ruolo che il nostro Verona aveva mestamente abbandonato qualche lustro fa.

Il secondo argomento è la presa d'atto che la trasformazione del calcio da sport popolare a business spettacolare sia ormai oltre il punto di non ritorno. Il tentativo maldestro dei club più blasonati, ed indebitati, d'Europa di formare una "Superlega", per quanto sia abortito velocemente (ma si ripresenterà in altra forma), ha fatto da spartiacque tra quanto ancora rimaneva dell'approccio "storico" e tra ciò che ci aspetterà nei prossimi anni dopo che:

  • la televisione e i nuovi media hanno soppiantato il valore del pubblico pagante sugli spalti, offrendo ad una platea virtualmente infinita ogni singola partita e andando a sovvertire i rapporti di forza economica tra l'incasso da stadio e quello da diritto televisivo;
  • la singola gara è diventata il prodotto da vendere, e quindi sono state annullate il più possibile sovrapposizioni per permettere allo stesso utente di comprare prodotti diversi, riducendo però la credibilità dei tornei, legata storicamente alla contemporaneità delle gare;
  • la tecnologia, sottoforma del VAR, ha stracciato del tutto il patto ultracentenario di un calcio dalle regole omogenee, uguale dalle categorie amatori alla serie A;
  • il "calcio minore" è stato annientato dalla concorrenza insostenibile del calcio televisivo, spopolando gli impianti di provincia;
  • le esigenze degli sponsor e il marketing spinto hanno intaccato persino pilastri come simboli e colori sociali e dopo che i calciatori si sono trasformati da atleti a industrie di autopromozione con tanto di indotto milionario;

possiamo ancora parlare di sport popolare, di attività che aggrega in campo, sugli spalti e che costituisce uno degli ultimi pilastri attorno a cui costruire un senso di comunità?

No, certo che no. Il punto di non ritorno ormai è dietro le spalle e anche se arriveranno ridimensionamenti necessari ad affrontare l'indebitamento e regole più stringenti, la strada è segnata e il Verona questa strada, per forza di cose, l'ha già imboccata. Stracciarsi le vesti per un allenatore che se ne va, per giocatori che si battono il petto mentre hanno un altro contratto in tasca, per un presidente che certamente ha altri interessi nel gestire una società calcistica oltre alla passione per i colori, per gli ingaggi milionari che non bastano mai, per le squadre fatte con i prestiti e per tutto ciò che significa calcio nel 2021, vuol dire essere fuori dalla realtà, ha la stessa valenza di usare un lessico commosso nel rimembrare il primo amore, romantico e indimenticabile, mentre si va a puttane per surrogare il bisogno di affetto.

"Il calcio è morto, viva il calcio!" perché senza il Verona non si può stare, nonostante tutto.

Rubo la consuetudine di Massimo nel proporre brani musicali a corredo dei suoi "canoni inversi", suggerendo la superba "starless" di King Crimson. Dura circa 12 minuti, godetevela con una birra doppio malto, non importa quale, purché sia dolce al primo aggancio nel palato ma vi lasci poi con un senso di amaro, come la malinconia.

Davide




Hellastory, 31/05/2021

MASTER OF NONE


L'inizio del terribile calendario di febbraio offre un paio di impressioni a caldo: 1) che il Verona è vivo e combatte, 2) che però è stato indebolito in attacco dal mercato di gennaio perché giocatori come Ngonge e Djiuric non sono facili da sostituire. A bocce ferme, quindi con maggior consapevolezza, possiamo invece realizzare che nel corso di gennaio abbiamo assistito a 3 eventi importanti, 2 dei quali francamente inusuali. In primo luogo, l'importante cessione di talento finalizzata a sistemare i conti societari. In secondo luogo, una serie di operazioni di mercato volte essenzialmente a lasciar andare quei giocatori che non si sentivano più parte del progetto. In terzo luogo, la bocciatura del sequestro delle azioni del Verona in sede di appello. Se però i primi due li abbiamo metabolizzati dal punto di vista affettivo oltre che tecnico costringendo i tifosi ad affidarsi completamente alla bontà del lavoro di Sogliano e Baroni e alla speranza che i nostri avversari non si siano adeguatamente rinforzati nel frattempo, il terzo apre a scenari che non riusciamo a valutare nella sua complessità.

[continua]

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