dal nostro inviato Alejandro
Quale sia la natura dello slancio masochistico che spinge ognuno di noi a farsi violenza e andare a soffrire sapendo già che l’esito non potrà che vederci soccombenti, è difficile spiegare. Tant’è che mi ritrovo a fare questa trasferta, se di trasferta si potrebbe parlare nel mio caso, visto che transito due volte al giorno da Cittadella per andare al lavoro, con un peso sullo stomaco come dovessi affrontare un percorso disseminato di mille difficoltà. Cittadella tuttavia è un piacevole borgo, dove si mangia bene (consiglio la «Taverna degli Artisti», trattoria dal menù casereccio e delicato in prossimità del teatro) e la vita si svolge prevalentemente dentro al castello dove ci sono parecchi bar dove lo spritz serale scorre a fiumi.
Ma ci vado. Mi sono chiesto tantissime volte come mai mi sia innamorato subito di questi due colori guardando per la prima volta le bandiere sventolare come accade a un adolescente di fronte ad un colpo di fulmine. Me lo sono spiegato cercando nelle mie origini: sono nato in un bel posto di mare e forse ho rivisto nel giallo e nel blu i due colori che nei disegni di un bambino non mancano mai: i colori del sole e del cielo (o forse, nel mio caso, del mare).
Oggi il cielo promette un azzurro invernale, diverso dal nostro umore plumbeo, e l’aria fredda e avvizzita come quella che si respira da molto tempo in questa sconquassata nave sballottata nella tempesta (come ha voluto paragonarla il nuovo DG). Già, Galli; forse nel suo paragone stava pensando alla barca di eroi della «Tempesta Perfetta», ma a me personalmente viene in mente il vascello di Capitan Uncino con un comandante arrogante (Pellegrini), una «Spugna» (chi sarà mai?) e tanti marinai pasticcioni e soprappeso che inciampano e si scontrano tra loro.
Mi copro per bene, quindi, ben conscio che lo spettacolo (se vogliamo definirlo tale…) non mi darà modo di riscaldarmi diversamente e accompagnato da mio nipote Massimo (alla sua prima partita, sic…), all’ingresso dello stadio trovo gli amici Canegrandis, Mago, Aquilante e Preben e assieme a loro mi «accomodo» in tribuna nord del Tombolato, praticamente su un ponteggio da cantiere. Strano il destino: la loro sede è un miniappartamento al pianterreno di un condominio qualunque, lo stadio non è nemmeno lontano parente del glorioso Bentegodi, il coinvolgimento della tifoseria non è minimamente paragonabile (fanno perfino tenerezza quella cinquantina di tifosi tutti con le bandierine uguali, come tanti giapponesi in gita), sembrano insomma in tutto e per tutto i cugini poveri, eppure loro sono lassù e noi ad annaspare in fondo al barile.
Pellegrini sceglie di giocare con l’unica punta Morante e Zeytulaev che dovrebbe innescare il contropiede in velocità. Mossa sbagliata, perché alla fine l’Uzbeco si distinguerà più per il gran lavoro di copertura che d’attacco. Comunque è lui l’unica nota positiva di un primo tempo che ci vede non costruire alcuna azione degna di nota a fronte di un dominio di gioco del Cittadella che gioca continuamente a fare azioni di accerchiamento alla nostra difesa.
Le mie aspettative quindi sono ben presto confermate. I nostri giocano a memoria, non nel senso di farlo con grande preparazione e metodo, ma a memoria di quanto male hanno fatto finora, e «copiano & incollano» le prestazioni passate. E’ davvero singolare ed incomprensibile: come sempre giocano compassati, come facessero da spettatori estranei a vicende accadute ad altri. L’avversario li salta e non se ne curano, sbagliano passaggi elementari e non fanno alcunché per rimediare; il tutto con una supponenza irritante. Il loro timoniere poi, sempre per restare in tema di navi, è l’insipienza tecnica fatta panchina: non c’è un copione stabilito, tutti recitano a braccio stonando e sbagliando i tempi, mentre la trama si dipana tra alti (pochissimi) e bassi (frequentissimi) privi di alcuna logica.
E così i nostri finiscono per apparire come i pezzi mossi a casaccio e nelle caselle sbagliate da uno scacchista alticcio, il quale se ne sta silenzioso a braccia conserte con l’aria di chi la sa lunga ad osservare il deprimente spettacolo.
Di ben altra pasta sono i nostri avversari: giocano con vigore e velocità; lanciano il pallone con estrema precisione e sembrano non voler infierire solo perché hanno quasi timore di distruggere un’icona i cui fasti forse da bambini hanno ammirato loro stessi. Mossa dopo mossa ci accerchiano inesorabilmente, e se non passano è solo perchè il loro centravanti ci grazia, lanciato solo davanti a Rafa.
Il secondo tempo sembra ripercorrere gli stessi binari del primo, ed invece stranamente i nostri cominciano a fare ciò che avrebbero dovuto fin dall’inizio, complice l’inversione di posizione di Zeytulaev con l’impalpabile Ferrarese. Il Ciitadella non riesce più ad accerchiare la nostra difesa.
Ma ci pensano la sfortuna, con l’obbligata sostituzione dell’Uzbeco infortunato con un buon Cissè, l’arbitro che nega a quest’ultimo la regola del vantaggio quando è ormai a tu per tu col portiere e soprattutto Pellegrini che sostituisce incomprensibilmente Martinelli (sul cui lato destro della nostra retroguardia il Cittadella non aveva combinato nulla), con Orfei. Ed infatti i nostri avversari ricominciano le manovre avvolgenti e sull’ennesimo cambio di fronte ad una manciata di minuti dal termine viene pescato tal Carteri tutto solo sul lato destro della nostra difesa e il gol è fatto: i nostri, memori che si approssima il Natale compongono il consueto presepe di statuine viventi, anche questa volta sembrano non voler rovinare un così bello schema avversario e assistono colpevoli complici al gol granata, con Orfei che nella circostanza se n’è andato per margherite.
E come sempre succede, preso il gol i nostri sbracano. Si potrebbe andarsene già ora, perché ciò che ci aspetta dopo non sarà certo il lucido arrembaggio che tutti dovrebbero attendersi, ma la sequenza di minuti di inutile sofferenza a guardare il nulla, tranne un gioco da fromboliere di Ferrarese che solo davanti al portiere avversario pensa bene di fare di tutto tranne che calciare in porta.
Rimane giusto il tempo per salutare gli amici infreddoliti e rientrare alla base domandandomi ancora una volta chi me l’ha fatto fare, ben consapevole che capiterà ancora di chiedermelo, in futuro...