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PROSSIMO IMPEGNO
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Il tifoso del Verona è abituato a soffrire. Lo è sempre stato, ma soprattutto negli ultimi decenni, dopo che la parabola del Verona di Bagnoli ha toccato il paradiso e la ricaduta da quelle altezze ha provocato vertigini e profonde crisi di identità. Ci sono voluti anni per rendersi conto che il posto al sole, lo scranno dorato tra le grandi del calcio italiano, era una roba passeggera, la breve sfilata di una bellezza autentica destinata a sfiorire in fretta. Anni in cui indossare la tunica di Carneade in serie B sembrava un contrappasso fin troppo duro, almeno finché non ci si è trovati di fronte ad un plotone di esecuzione, allo Speroni di Busto Arsizio, con l'ultimo desiderio che in qualche modo arrivasse qualcuno a salvarci o che i moschetti facessero tutti cilecca: lì siamo stati anche peggio, in sentore di estrema unzione, sofferenza estrema, rassegnata.
Abituati a soffrire, sempre. Adesso però il tifoso del Verona deve abituarsi anche ad altro, perché se la sofferenza è tensione emotiva, affare di quanto si può resistere se il barile raschiato è dentro di noi, nel nostro stomaco, nel nostro cuore, nel nostro produttore ultimo di speranze, ma comunque materia alla quale ci si può abituare in qualche modo fissando un limite di tolleranza, negli ultimi tempi si tratta di allenare altri muscoli: quelli del vivere alla giornata. Su questo concetto si dibatte in filosofia da millenni, è una questione complicata che tocca il nostro essere più profondo e che determina, più di qualsiasi altro aspetto, l'approccio all'esistenza del singolo individuo, del gruppo sociale, di interi popoli. Una roba che mescola, senza nessuna regola di riferimento sul dosaggio degli ingredienti, l'unicità dell'individuo, la cultura in cui è immerso, le circostanze contingenti, molteplici varie ed eventuali e anche una cospicua dose di fortuna o sfiga, insomma, un esteso ginepraio in cui orientarsi, se non si nasce con una bussola di serie, diventa quasi impossibile. Ma non c'è alternativa, se non ulteriore sofferenza da aggiungere a quella ormai entrata per osmosi nel nostro DNA. Così, quando ancora il gusto inebriante di una stagione tra le più belle di sempre stenta a lasciare le papille emotive, quando i 53 punti in classifica provocano un'immediata erezione emotiva e i 65 gol stagionali non ci si stanca di guardarli e riguardarli, ci ritroviamo a dover ripartire di nuovo da zero.
È dura per il tifoso, durissima. Ed è dura oltremodo per chi scrive, con l'intento di introdurre un'analisi sulla stagione appena conclusa, riuscire a staccare il passato prossimo dal presente. Un presente dove a pochi giorni dall'ultima di campionato l'allenatore se ne va ed è sempre più chiaro che i pezzi da 90 della squadra, anche se formalmente sul bancone del mercato ne viene esposto solo qualcuno, sono in realtà tutti già disponibili per essere incartati e allungati al miglior offerente. La realtà, la nostra realtà è purtroppo questa, e non ce l'ho con Setti (quantomeno non per questo), perché è un segno dei tempi, non solo del calcio, si respira la precarietà ad ogni passo, si vive alla giornata, mettiamo insieme pranzo e cena e poi si vedrà. Nelle ultime 3 stagioni è andata bene. Setti è stato bravo ad affidarsi a D'Amico, talmente bravo che adesso anche Tony ci saluta e se ne va all'Atalanta che, nonostante i tanti schei, ha fatto pochi punti più di noi e l'anno prossimo le coppe europee le guarderà in tv, segno che di certezze, in questo mondo scattante che corre veloce al punto da perdere spesso il contatto con il suolo, non è facile per nessuno sentirsi al sicuro.
Detto questo, come esternazione di un consapevole disagio nei confronti di una filosofia di vita che purtroppo non mi appartiene e che, credo, per svariati motivi, non appartiene nemmeno a tanti tifosi, con la quale tuttavia dobbiamo fare i conti tentando capriole filosofiche per non soffrire troppo, vengo al dunque, ovvero a considerazioni che non possono essere che banalmente entusiastiche rispetto ad un campionato che, per il nostro Verona, è stato bellissimo.
Si ricominciava (ma ormai abbiamo detto che non è notizia ma regola) da zero. Juric si era lasciato sedurre, a mio avviso ben prima della fine della stagione, dalle sirene di Cairo, forse persuaso di approdare tra gli eredi di una grande del passato destinata a risorgere (e in questo caso le sirene hanno avuto forti effetti allucinogeni), o forse semplicemente convinto da uno stipendio più corposo, chissà, tant'è che il ruvido condottiero di due ottime stagioni ha fatto le valigie. La squadra viene così affidata a Di Francesco, allenatore con la faccia da secchione precisino che impara a memoria le lezioni e suda moltissimo quando è alla lavagna, ma soprattutto personaggio che quando ha incrociato il Verona (lo ricordiamo da giocatore nel Piacenza che giustiziò lo squadrone di Malesani e da allenatore del Pescara che ci superò nella finale play off di lega Pro) non ha mai lasciato un buon ricordo, tra l'altro con referenze sporcate dalla recente, e pessima, esperienza al Cagliari. Nessuno sembra contento del nuovo arrivato, nemmeno lo stesso Setti che, dopo le prime 3 partite (3 sconfitte...), chiama in panchina quello che in estate sembrava già il suo pallino: Igor Tudor, nome da Gorzongola piemontese, cognome da batterie per motori massicci; un passato (ingombrante ma non troppo) da giocatore di seconda linea della Juve e da secondo di Pirlo in panchina nell'ultima ombrosa stagione dei bianconeri.
La differenza si vede subito: Tudor non è Di Francesco. Innanzitutto, parla poco, è uno che alle conferenze stampa alterna grugniti a risposte ovvie e talmente corrette da risultare banali, un monolite tra il bonaccione e lo scazzato, uno che, per dire, non si capisce se non cura la barba per pigrizia o per deliberata scelta di immagine. È uno che tranquillizza, tutto il contrario dell'ansiogeno Di Francesco.
È uno che ci piace subito.
Tudor non è nemmeno Juric però, e non solo per le già citate predisposizioni all'utilizzo di un vocabolario minimale in quantità e qualità, e per la tranquillità, quantomeno apparente, con cui conduce il suo ruolo, quanto per la sua visione di gioco. Il suo Verona non è la squadra corta ed efficace a cui eravamo abituati con Juric, ne quel meccanismo oliato nei dettagli a cui, immagino, aspirasse Di Francesco: l'Hellas targato Tudor è squadra sbarazzina, senza complessi di inferiorità, aggressiva anche se mai spregiudicata, con un gruppo votato al gioco a viso aperto e una certa libertà dei singoli nel tirare fuori le loro caratteristiche tecniche rispetto a quelle tattiche, motivo quest'ultimo, di una differenza evidente tra la qualità del gioco di attacco rispetto alla fase difensiva. Giocatori del valore di Caprari, Lazovic, Barak, Simeone, Tameze e Faraoni (che ha raggiunto una piena maturazione disputando una grande stagione) hanno dato il meglio in un assetto tattico in cui posizioni e movimenti non hanno mai dato l'impressione di essere troppo rigidi, regalandoci grandi gol, grandi assist, tante giocate da manuale del calcio e la costante fiducia di poter fare risultato contro tutti. L'altro lato della medaglia è che l'atteggiamento sbarazzino, la propensione a tenere il pallino del gioco con il rischio di perdere palla e trovarsi sbilanciati e, va ribadito, una linea arretrata di caratura sensibilmente inferiore agli altri reparti, alla fine ci sono costati qualche gol di troppo. Al tecnico posso inoltre obiettare cambi un po' discutibili, sia nell'economia della singola gara (all'Olimpico contro la Roma l'esempio più calzante), sia nell'ambito dell'intero torneo in cui ha tenuto in considerazione un numero ristretto di giocatori rispetto alla rosa, con un punto di domanda soprattutto su Cancellieri, che con Di Francesco aveva fatto un buon pre-campionato ed era in tutto e per tutto una prima scelta. Ma al netto di questa breve analisi tattica, del tutto personale e assolutamente opinabile, il risultato del lavoro di Tudor con il Verona è stato eccellente, e solo il senno di poi, di fronte a quella manciata di punti di distanza dalle posizioni europee, potrebbe metterlo in discussione, ma sarebbe un senno di poi decontestualizzato dall'andamento della stagione e dalla reale potenzialità di questa rosa che, giova ricordarlo, era stata costruita per una salvezza tranquilla e simbolicamente importantissima in quanto avrebbe sfatato il "tabù del terzo anno in A". La salvezza è arrivata con largo anticipo, ci siamo divertiti tantissimo gustandoci vittorie esaltanti arrivate in tutti i modi: dominando l'avversario, spuntandola a fatica, esaltandoci con rimonte improbabili o inserendole nella statistica di quel colpo di culo che in genere capita agli altri. Indimenticabili l'ennesima vittoria sulla Juve, i poker inflitti alla Lazio, all'Udinese, allo Spezia e al Sassuolo sul suo campo, e quello in incredibile rimonta a Venezia, le belle vittorie sulla Roma (che ha inaugurato il ciclo di Tudor) e in casa dell'Atalanta. Un gran bel Verona, un bel gruppo di giocatori e di ragazzi sicuramente affiatati da un lavoro di spogliatoio che il carattere di Tudor credo abbia contribuito a mantenere sereno e compatto. Un gruppo di giocatori che spesso ha dato l'idea di giocare divertendosi.
Non è questo il posto delle pagelle, ma mi sento di fare qualche nome che, a mio insindacabile giudizio, merita una citazione: innanzitutto Caprari e Tameze. Il primo è un talento classico, un giocatore con tutti i fondamentali ben sviluppati e un ritmo e visione di gioco che non hanno tempo: dalla tre quarti campo in su, uno come Caprari potrebbe giocare in qualsiasi epoca e con qualsiasi modulo. Il secondo è un calciatore moderno, con una buona tecnica, ma soprattutto con un eccellente senso della posizione e tempi perfetti nei movimenti, sia che si tratti di anticipare, chiudere o contrastare l'avversario, sia che si tratti di impostare la manovra o proporsi per l'assist vincente, gli manca solo di tirare in porta con più convinzione ma, di fronte a quanto ha dato alla squadra in questo campionato, sembra davvero un dettaglio. Citazioni d'obbligo anche per Simeone che ha fatto tanti gol, assist e un gran lavoro in attacco, e per Lazovic che sembra sempre un ragazzino quando punta l'avversario e la mette in mezzo.
A margine, ma neanche tanto, di un'annata di alto livello, non registriamo nessun progresso, nel bene o nel male, nel rapporto tra Setti (la società Hellas Verona di fatto è lui) e la tifoseria, che rimane divisa sul giudizio. Al netto delle fisiologiche diversità di vedute e di pregresse annate di stampo sportivo ben diverso dalle ultime, sembra evidente che, di fronte ai successi sportivi degli ultimi anni, a tracciare le distanze sia soprattutto il fattore "vivere alla giornata" con cui si è aperta questa analisi, perché se da una parte i numeri sono dalla parte del Patron carpigiano, dall'altra il futuro del Verona è sempre pervaso da un pesante alone di incertezza. È chiaro che Setti non ha possibilità economiche per salti di qualità eclatanti, così come è chiaro (e lecito) che il Verona sia per lui un'attività economica da cui trarre profitti personali o da reinvestire in altri settori del suo business. Sono questioni già discusse e palesi da anni, alle quali si può opporre che non si vedono all'orizzonte magnati veronesi in grado di scucire milioni per fare grande il Verona (e a mio avviso nemmeno per farlo galleggiare), mentre magnati esteri pronti ad investire per ora trovano dimora solo nelle chiacchiere di terza mano o nelle ipotesi più rosee che ruotano dietro le voci di cessione. Peraltro, visto quanto sta succedendo nel mondo del calcio, non è detto siano soluzioni vincenti. Si può anche opporre, più pragmaticamente, che fintanto che gli interessi del Patron collimano con le aspettative dei tifosi (come nelle ultime stagioni), dovrebbe andare tutto bene, ma in realtà sembra di respirare una tregua pronta a rompersi di fronte ai primi reali problemi di classifica. C'è inoltre un atteggiamento da parte del Presidente che mi risulta incomprensibile, ma che è fin troppo evidente: purtroppo Setti non fa nulla per farsi voler bene e non si sforza minimamente di dimostrare un po' di empatia con Verona e i veronesi, talvolta sembra addirittura distaccato al limite del provocatorio. Mi tolgo in questo senso un bel sasso che rode nella scarpa da un po' di tempo: la millesima in serie A sarebbe stata da giocare con una maglia storica; ma andava bene anche la prima maglia di quest'anno, con i nostri colori e, se proprio proprio, anche la seconda maglia che qualche tratto di giallo e blu li ha. Invece no. Ce la siamo giocata in maglia verde. Quella maglia che lo sponsor tecnico deve averci tirata dietro per svuotare i magazzini, visto che dalla prossima stagione non potrà più essere usata per questione di contrasti cromatici nella grafica digitale. Quella maglia verde che per giustificarla sono andati a scomodare il "drappo verde" del Palio medievale con un tuffo carpiato da oro olimpico della paraculaggine. Ecco, la millesima ce la siamo giocata senza niente di gialloblu addosso e banalizzare una scelta di questo tipo significa essere distanti anni luce dalla mentalità del tifoso. Ma anche da quella di una dirigenza con un minimo sindacale di sensibilità e rispetto.
In conclusione, archiviamo una delle migliori stagioni di sempre nella storia gialloblu, non solo di quella recente. Adesso non sarebbe bello poter sognare, guardare a questo brillante nono posto come un trampolino per fare meglio l'anno prossimo, tipo pensare di aver vinto un concorso statale, di esserci guadagnati ormai il posto fisso in serie A con possibilità di aspirare anche a fare carriera? Solo sognare, che poi magari anche tenendo l'ossatura e rinforzando la squadra andiamo a giocarci la prossima salvezza all'ultima giornata, perché il calcio è così, ma quantomeno si può lavorare di immaginazione, Invece no: si ricomincia ancora da zero, sperando che i nuovi arrivi riescano a confermarci ai livelli degli ultimi anni ma con tutta l'apprensione che portano i cambiamenti. Sì, insomma, si vive alla giornata, anzi: si soffre alla giornata, un gioco di parole perfetto per descrivere il nostro stato d'animo, chissà se riusciremo mai a convivere con questa incertezza, a goderci il momento, a sposare la filosofia del "don't worry, be happy!".
Davide
Lazio e Torino, che peraltro sono formazioni superiori, hanno evidenziato un tema già affrontato durante l'estate: la difesa. È innegabile che Sogliano abbia lavorato con maggiore attenzione alla scoperta prima e all'arrivo poi di giocatori di qualità a centrocampo e in attacco, in ottica plusvalenze. E si vede. Ogni partita scopriamo un gesto tecnico superiore alla media da parte di Harroui, Kastanos, Tengstedt, e perfino di Livramento e Mosquera. Altri ne arriveranno da nuovi giocatori che al momento non conosciamo bene perché si stanno ancora integrando. Per non parlare dell'evoluzione esponenziale di Belahyane che creerà non pochi, ma piacevoli, problemi di turnover al mister al rientro di Duda e Serdar. Sulla difesa invece non si è lavorato. O non abbastanza. Gli arrivi nel finale di Daniliuc e Bradaric non sembrano decisivi in un reparto dove Frese e Okou faticano ad adattarsi al livello del nostro campionato. E neppure i ritorni di Faraoni (bloccato a Verona solo a causa di un ingaggio pesante) e Ghilardi (mai veramente preso in considerazione) sembrano essere un valore aggiunto.
[continua]Qual è stato il miglior gialloblu in campo in
Como-H.Verona?
Riepilogo stagionale e classifica generale
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